Tra monumenti iconici e autori che hanno segnato un ruolo fondamentale all’interno della letteratura inglese, l’Inghilterra (e in particolare la città di Oxford) sono il punto trainante della commedia drammatica targata Netflix con protagonisti Sofia Carson e Corey Mylchreest (La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton) dal titolo Il mio anno a Oxford, ispirato all’omonimo romanzo di Julia Whelan e disponibile sul piccolo schermo. Una storia che punta a riflettere sulle scelte del destino, sull’amore e le sue rinunce, sottolineando l’importanza di assaporare ogni istante della nostra vita.
L'amore per la poesia vittoriana
Anna De La Vega è una studentessa americana in procinto di iniziare la sua nuova vita a Wall Street, sebbene la sua carriera lavorativa sia stata messa in pausa per un anno per permettere alla ragazza di realizzare un suo sogno: studiare poesia vittoriana nella prestigiosa Oxford.
Tuttavia, arrivata sul suolo britannico la protagonista scoprirà che la professoressa che cura il suo corso sarà sostituita dal dottorando Jamie Davenport, un affascinante ragazzo di origini benestanti. Nonostante gli iniziali battibecchi, tra i due scoppierà una scintilla che li porterà a frequentarsi senza creare niente di serio. Col passare del tempo, Anna si accorge di provare dei veri sentimenti per Jamie, malgrado quest’ultimo non voglia intraprendere nessuna relazione amorosa a causa di un segreto che nasconde.
Il mio anno a Oxford: L'amore, la vita, la morte e la poesia
È la poesia di Matthew Arnold – La spiaggia di Dover – a unire i destini dei due protagonisti, legati dall’amore per la letteratura e dai suoi variopinti significati. Alla domanda di lui su cosa voglia dire l’autore con questo brano, la ragazza vede nelle frasi stampate sul libro la speranza di poter contare sugli altri nonostante la vita possa risultare insidiosa e piena d’ostacoli. Una risposta che affascina il giovane protagonista, colpito dalla sua capacità nel trovare qualcosa di buono all’interno di una delle poesie più pessimistiche dell’era vittoriana.
È un tributo all’amore e cosa voglia significare accettare il destino che ci viene posto quello raffigurato dal regista Iain Morris, abile nel coniugare la comicità e la leggerezza presente nella prima parte del lungometraggio con l’emotività della seconda. E mai scenario poteva essere più tragico della maestosa Inghilterra, famosa per i suoi autori e per quei sonetti nella quale viene dipinto l’appassire di una storia d’amore.
Un esempio lampante descritto anche sul grande schermo nel film Io prima di te (2016), dove il tetraplegico Will insegna alla giovane Louisa cosa voglia dire allargare i propri orizzonti, credere in sé stessa e cogliere le opportunità che ci vengono offerte lungo il nostro cammino. Un percorso analogo riproposto sul piccolo schermo da Il mio anno a Oxford rappresentato dalla coppia improbabile formata da una studentessa straniera e un dottorando inglese divisi da un grande ostacolo: la malattia di lui.

La sceneggiatura a quattro mani di Allison Burnett e Melissa Osborne propone linee narrative che si distaccano leggermente da quanto scritto dall’autrice del romanzo originale, fornendo alla storia (e quindi al suo epilogo) un messaggio più potente e veritiero.
L’opera sembra toccare vette di sensibilità davvero alte grazie alla maestosa interpretazione di Mylchreest, un personaggio maschile ben delineato grazie alla capacità dell’attore nel riuscire a cogliere la delicatezza di un futuro che il suo protagonista non vuole attraversare per mezzo di visite mediche e cure alternative.
È profondo il suo coraggio nell’accettare un destino beffardo che gli impone delle scelte, come quella di non volersi legare a nessuno per paura di non riuscire più a separarsene. E forse le parti migliori de Il mio anno a Oxford è possibile coglierle proprio quando Jamie detiene la scena insieme al padre (interpretato dal convincente Dougray Scott), quest’ultimo sprofondato dal dolore nel non poter cancellare questo fardello dalle spalle del figlio, non dopo averne perso un altro nel giro di pochi anni per quello stesso male.
Chi risulta poco impattante è il personaggio interpretato da Sofia Carson: regina delle commedie romantiche targate Netflix dopo il successo di Purple Hearts e La lista dei miei desideri, l’attrice sembra risentire di questa parte a causa di una scarsa caratterizzazione presente sulla sceneggiatura, portando di conseguenza lo spettatore a domandarsi qual è il vero ruolo della donna. Il suo passato con i genitori, il lavoro che l’aspetta negli Stati Uniti e quel senso di estraneità nel trovarsi in una città (addirittura continente) diverso dal suo sembrano magicamente scomparire di fronte all’attrazione che prova per Jamie.
Gli stessi personaggi di contorno risultano alquanto stereotipati – il classico amico omosessuale amante della moda e l’amica innamorata del compagno nerd – sebbene a ottenere un certo impatto è l’attrice Poppy Gilbert con la sua delicata Cecelia Knowles, una figura chiave all’interno della famiglia Davenport.

Malgrado quanto decantato nel titolo, la pellicola tende ad allontanarsi da alcuni aspetti legati alla vita inglese. Ciò è evidente nella scelta di limitare le scene all’interno dell’ambiente universitario (perdendo dunque di valore) ma anche nel porre la stessa poesia ai confini della storia, ecclissandola velocemente dalle vite dei protagonisti. Sono solo alcuni echi richiami a ricordarci che il lungometraggio è ambientato nell’affasciante e tradizionale suolo britannico, un’opzione che a conti fatti risulta incomprensibile per una chiave di lettura.
Il mio anno a Oxford presenta degli evidenti difetti sebbene possa contare su alcuni pregi, in particolare l’ottima chimica tra i due attori protagonisti. L’intento dell’opera è più che evidente: questa commedia drammatica punta a far riflettere non solo sul senso della vita – e coglierne i suoi mille significati – ma anche di come l’amore ci possa portare a scegliere percorsi diversi da quanto avevamo pianificato. Il personaggio di Jamie fornisce ad Anna la chiave per intraprendere la sua vera vocazione, ossia insegnare poesia, portandola a mettere al centro dell’attenzione il suo bisogno primario.
Seppur nel suo piccolo insieme, il lungometraggio risulta potente nell’assemblare tematiche forti e di spessore come la vita, la morte, l’amore e la poesia. Sono questi gli ingredienti che ci conducono all’interno di un dramma fin troppo prevedibile ma non per questo meno doloroso.