È una storia che ha avuto inizio tanti anni fa, tra le piazzole boschive o nei tipici luoghi appartati ben conosciuti dalle giovani coppie innamorate, seminando per un lungo periodo un terrore viscerale respirabile nelle strade della bella Firenze. Se non si conoscesse la realtà dei fatti si potrebbe pensare di essere all’interno di un lungometraggio di finzione firmato da David Fincher, già autore in passato di racconti cupi come Zodiac o L’amore bugiardo.
Eppure, quello de Il mostro è un fatto di cronaca nera le cui indagini rimangono ancora sospese nell’aria: chi si aggirava indisturbato nelle campagne della provincia per aggredire, con tale ferocia, coppie di amanti intenti a copulare? Attraverso lo sguardo del regista Stefano Sollima ci si immerge in uno spazio lontano anni luce dalla nostra quotidianità, un mondo offuscato da liti e una persecuzione del sistema patriarcale che ci conduce lungo la narrazione a un solo quesito: è vero che il mostro si nasconde dietro ognuno di noi?
Un lungo caso giudiziario
La nuova miniserie prodotta da Netflix – presentata in anteprima alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – porta in luce gli otto duplici omicidi avvenuti nelle campagne circostanti del capoluogo toscano dove, in maniera del tutto anonima, si aggirava un aggressore armato che prendeva di mira giovani amanti intenti a fornicare nelle loro automobili.
Una cronaca giudiziaria che ha tenuto banco in un lasso di tempo compreso tra il 1968 e il 1985, portando la stessa penisola italiana a confrontarsi in un’indagine penale lunga e complessa, conducendo le stesse autorità a scontrarsi con una realtà più grande di loro. Partendo dalle origini e quindi da quel primo caso messo a tacere in poco tempo, il cineasta di Gomorra elabora attraverso un tono documentaristico le origini del mostro di Firenze.

Il mostro: una miniserie innovativa (e spiazzante)?
Quella de Il mostro è una serie tv che può confondere il pubblico italiano, chiamato a rivivere un passato mai del tutto dimenticato (o addirittura, per la nuova generazione, a imbattersi per la prima volta in questo periodo ignoto della storia). È una vicenda che all’epoca, ancora nel bel mezzo delle indagini, traccia già una lunga scia filmografica allo scopo di cavalcare l’onda furiosa che tempestava la stampa, il cui interrogativo era rivolto a quella commissione giudiziaria che non riusciva a trovare una fine a quegli omicidi.
Un racconto portato sul grande e piccolo schermo che vedeva solitamente protagonisti loro, i cosiddetti “compagni di merende”, espressione utilizzata per indicare i volti di Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti come autori dei delitti; nomi che rimbalzavano e rimbalzano tutt’ora nei vari mass media portando di conseguenza l’inevitabile collegamento con il caso del mostro di Firenze.
Eppure, prima di loro vi era un’altra pista, quella sulla quale Sollima decide di concentrarsi per rivelare ai suoi spettatori l’arretratezza e le barbarie che comprimevano la Toscana nel periodo tra la fine degli anni Cinquanta fino agli inizi degli anni Ottanta.
La novità presentata da Sollima sta proprio nella sua messa in scena: l’accento viene posto sulle indagini svolte dal sostituto procuratore Silvia Della Monica, articolando nei soli quattro episodi altrettanti quattro esemplari di possibili sospettati. Ogni sceneggiato si apre quindi sotto il profilo di uomini che, nella loro povertà e ignoranza, davano prova di poter costituire la soluzione all’intricato enigma.
È una pista sarda quella inseguita dal cineasta (la cui sceneggiatura è stata scritta a quattro mani insieme al collega Leonardo Fasoli) che ci porta dapprima alla conoscenza della famiglia Mele e infine in quella dei Vinci. Uno spaccato rispetto a quanto visto in passato intuibile dalla scelta stilistica di non soffermarsi sugli efferati crimini – che vediamo solo sullo sfondo – né tanto meno sulla presentazione delle vittime stesse: quello che lo spettatore sta osservando è il punto di vista dell’assassino, un uomo che ignora totalmente l’identità delle sue prede.
Ecco quindi riavvolgersi il nastro al 1968, annata passata quasi inosservata per via del delitto di Barbara Locci per mano del marito Stefano Mele, un (si presuppone) reato passionale che trova un punto in comune con gli altri compiuti negli anni passati per mezzo di una Beretta calibro 22.

Un sistema tossico e patriarcale
Per mezzo di continui salti temporali si intrecciano le storie di queste giovani vite, un’intersecazione che trova una sorta di radice nel personaggio femminile della Locci. È attraverso la sua figura che si delinea un racconto fomentato da una perpetua violenza ai danni delle donne – costrette contro il loro volere a sposare uomini più vecchi o a subire abusi sessuali – all’interno di un patriarcato che vede nel gentil sesso solo un mezzo per soddisfare i propri bisogni fisiologici.
Una narrazione che si estende oltre la ricerca del mostro di Firenze, dipingendo uno scenario rurale dominato da una fallocrazia: è il caso della stessa Locci, le cui angherie subite la porteranno a condurre (sotto forma di riscatto per quello che ha passato) una vita segnata da numerosi amanti. È il caso dello stesso sostituto procuratore, l’unica e solo donna (avvolta da un mantello di uomini) a condurre e a portare avanti il caso. È un ambiente tossico quello che dipinge Sollima, un sistema culturale fallito sotto tutti i punti di vista che si dispiega sotto una scia di sangue e ferocia.
Il mostro riavvolge il nastro all’inizio di ogni episodio, fornendo punti di vista differenti in base al personaggio maschile prescelto. Un’opzione dettata dalla volontà di esplorare diverse dinamiche, sebbene l’intera serie punti a non voler mai scavare fino in fondo il background della figura protagonista, dando allo spettatore solamente poche briciole per costruire un’ipotetica caratterizzazione del personaggio di turno.
Un pregio che si avvolge dal desiderio di adottare un cast composto prevalentemente da volti semisconosciuti all’interno di una narrazione dal ritmo ponderato ma funzionale all’atmosfera. L’epilogo e la conseguente introduzione di Pacciani inducono alla possibilità di ampliare la miniserie con una nuova stagione per l’esplorazione dei “compagni di merende”; eppure, tanto basta quello che ci viene mostrato per arrivare alla conclusione che il mostro, chiunque esso era, si nascondeva in ognuna di quelle case mettendo a tacere la loro compagna a causa di un sistema corrotto e di una paura che covava lentamente e inesorabilmente.
