Una giovane ragazza impugna nella sua mano una graziosa scarpetta, il suo ultimo e disperato tentativo per conquistare l’ambito cuore del principe azzurro. Eppure, la calzatura minuscola e il suo piede enorme rendono impossibile l’incoronamento del suo sogno, una vita agiata e contornata da bellezza e passione con l’uomo della sua vita; pertanto, in preda alla follia cieca decide di impugnare la mannaia per tagliarsi le dita del piede salvo scoprire in un secondo momento di aver amputato il piede sbagliato.
È una scena grottesca che stride con la fiaba di Cenerentola portata in scena dalla Walt Disney negli anni Cinquanta, una storia suggestiva che nasconde allo spettatore la versione originale, quella cruenta scritta nell’Ottocento dai fratelli Grimm. Accantonando il racconto che tutti noi conosciamo, la regista norvegese Emilie Blichfeldt esordisce sul grande schermo con un suo personale adattamento da una prospettiva horror dove, tra nasi rotti e dita mozzate, viene riscritta la novella dal punto di vista della sorellastra di Cenerentola.
The Ugly Stepsister: C'era una volta una fanciulla bruttina...
Nella Norvegia dell’800 una fanciulla di nome Elvira (Lea Myren) sogna a occhi aperti di poter incontrare e sposare il principe Julian (Isac Calmroth), autore di alcune poesie d’amore. La realtà dei fatti la porta a prendere coscienza che tale desiderio è di per sé irrealizzabile in quanto “bruttina” secondo gli standard della società.
Insieme alla aristocratica e altezzosa madre Rebekka (Ane Dahl Torp) e alla sorella minore Alma (Flo Fagerli), giungono nel regno di Swedlandia dove vengono accolte dal vecchio nobile Otto e dalla figlia Agnes (Thea Sofie Loch Næss). Il conseguente matrimonio segna l’obiettivo della matriarca, ossia risanare le finanze della famiglia, sebbene la protagonista venga allo scoperto della povertà della controparte. Decisa ad aiutare la madre, Elvira avanza l’idea di sposarsi sottoponendosi a continue sevizie con l’obiettivo di apparire bella ed elegante in modo da attirare l’attenzione del principe al ballo reale.
Un riadattamento in chiave horror
Solo negli ultimi anni il grande schermo si è riempito di remake in live action – dal risultato non sempre notevole – allo scopo di avvicinare e far conoscere alle nuove generazioni i lungometraggi firmati in tempi lontani dalla famosa casa targata Walt Disney. Un idillio amoroso dove principi e principesse incoronano il sogno di vivere per sempre felici e contenti mentre perfide matrigne o malvagi stregoni hanno la peggio.
Ma cosa succede quando, dai paesi nordici, giunge in maniera inaspettata una regista capace di prendere in mano la classica storia di Cenerentola per rielaborarla– in chiave body horror – ribaltando il concetto iniziale della fola? The Ugly Stepsister sposta il focus su Elvira, sorellastra della bella Agnes (ribattezzata in seguito Cenerentola), modellando attraverso una satira nera una critica sulla disperata ricerca di una perfezione e una bellezza inarrivabile.

Trasformazioni e mutazioni
Sembra quasi scontato fare un paragone con il più recente The Substance di Coralie Fargeat, un’ossessione verso standard irraggiungibili che si traducono con continue trasformazioni fisiche – e grottesche – da parte di una Demi Moore che la conducono all’interno di un incubo distopico dalla quale sembra impossibile uscirne. Riprendendo in mano tali tematiche, la cineasta Blichfeldt sembra addirittura volersi spingere oltre nel suo
The Ugly Stepsister per mezzo di continui primi piani nelle scene più mostruose, mutazioni che pongono l’accento su una società bigotta interessata solamente all’aspetto esteriore. È un cinema gore alimentato e incentrato sugli aspetti violenti del corpo ma anche sulla sessualizzazione di esso, evidente nelle inquadrature che mirano a un continuo confronto con il fisico normopeso (e non sensazionalistico) di Elvira. Una pellicola che nasce come critica femministica capace di ribaltare le aspettative del pubblico, che si ritrova a riflettere su chi si cela dietro l’ingenuità della protagonista e la (finta) bontà di Agnes.
A calamitare l’attenzione è senz’altro la performance di Lea Myren: sono i suoi occhi la vera anima di questa opera, uno sguardo capace di arrivare e colpire direttamente il pubblico restituendo al destinatario uno squarcio di un vissuto che – ancora oggi – domina all’interno della collettività.
È un’insicurezza quella che traspare nei primi minuti della narrazione, un senso di inadeguatezza di fronte alla splendida Agnes che accompagna Elvira verso quello che sarà per lei un precipizio: le continue modifiche al suo corpo (che culminano con l’ingerimento della tenia) e il carattere accomodante degenerano verso uno squilibrio mentale dove a farne le spese è la sua stessa corporatura, un ammasso deforme e ripugnante come simbolo di punizione per aver tentato di raggiungere l’eterna grazia.
La stessa interpretazione di Thea Sofie Loch Næss fotografa la volontà di vedere una Cenerentola sotto un nuovo (e inedito) punto di vista, ossia di una ragazza battezzata dal fascino ma infastidita dall’arrivo nella sua casa delle tre donne. Una fanciulla che non risparmia battute taglianti alla sorellastra, che fornifica di nascosto nelle stalle con il suo partner e che, attraverso il suo sguardo, prova miseria nei confronti di Elvira e dei suoi cambiamenti.

Blichfeldt delinea la sua storia nella Norvegia dell’Ottocento dove, mediante il direttore della fotografia Marcel Zyskind, dipinge un’atmosfera gotica caratterizzata da una scarsa illuminazione che stride fortemente con lo scenario quasi fiabesco rintracciabile negli spazi esterni, come se la cineasta volesse mettere in evidenza la crudeltà che si racchiude dietro le mura del castello (e quindi le umiliazioni e le trasformazioni) a dispetto della libertà che la protagonista può respirare all’aperto insieme alla fidata sorella.
Una pellicola ricca di vari omaggi alla cultura cinematografica, a partire da Cronenberg – maestro del body horror – fino ad arrivare al lavoro dei registi italiani come Argento e Fulci. Per mezzo di una colonna sonora che mira a creare un clima di inquietudine e tensione, la regista norvegese confeziona un’opera dotata di intelligenza e pathos, assicurandosi uno spazio nella settima arte per il suo promettente lavoro.
