Può l’uomo elevarsi a Dio e alle sue leggi universali? È lecito considerare l’essere umano una sorta di divinità, capace di alterare il suo normale ciclo biologico naturale dell’esistenza? Questi sono solo alcuni dei quesiti posti dal regista Guillermo del Toro nel suo nuovo adattamento cinematografico di Frankenstein, trasposizione del leggendario romanzo gotico firmato dalla scrittrice Mary Shelley. Un’opera a lungo agognata dal cineasta – nonostante gli iniziali rifiuti e rinvii – e presa sotto l’ala protettrice dalla piattaforma Netflix con cui del Toro ha firmato un accordo pluriennale.
E proprio per celebrare l’importanza di una delle pellicole più importanti e significative del regista messicano, quale occasione migliore se non quella di presentarla in anteprima assoluta alla 82. Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, lì dove otto anni fa conquistò il Leone d’oro per la sua favola gotica dal titolo La forma dell’acqua. Accompagnato da un cast composto da Oscar Isaac, Jacob Elordi, Mia Goth, Christoph Waltz e Felix Kammerer, il lungometraggio punta a sviscerare la storia che tutti noi conosciamo per fornire approfondimenti su due questioni che si intrecciano alla base di questo racconto: la vita e la morte.
Dalla morte può nascere la vita?
Metà del XIX secolo. Una nave danese finisce per rimanere bloccata nel Mar Glaciale Artico portando l’intero equipaggio a disperarsi per la terribile situazione. In mezzo ai ghiacciai, però, viene rinvenuto un uomo gravemente ferito dal nome Victor Frankenstein (Oscar Issac), profondamente angosciato dal fatto che una strana creatura si aggira nei dintorni per dargli il tormento. Scortato sulla nave, lo scienziato racconta la sua infanzia al capitano Anderson (Lars Mikkelsen), una fanciullezza plasmata dalle orme severe del padre (Charles Dance) e dalla tragica – quanto prematura – scomparsa dell’amata madre.
Con l’obiettivo di dimostrare la sua grandezza e la sua capacità nel superare i limiti dell’impossibile (in questo caso il concetto di morte), Frankenstein riceve ben presto il sostegno finanziario del trafficante d’armi Harlander (Christoph Waltz), zio della sua futura cognata Elizabeth (Mia Goth), per realizzare un suo personale progetto: riportare in vita la morte. Ben presto la creatura (Jacob Elordi) messa da lui al mondo diventerà sinonimo di quella superbia che da sempre ha contraddistinto in malo modo lo scienziato, portandolo a rivedere alcune scelte compiute in passato.

Frankenstein: un mito letterario affidato alle mani di un gotico visionario
In principio fu il regista James Whale e la sua star Boris Karloff a portare sul grande schermo il manoscritto di Mary Shelley, un’opera ancora oggi considerata un modello per l’immaginario del cinema dell’orrore portato alla luce con successo negli anni Trenta dalla Universal Pictures. Un lungometraggio abile nel trasporre temi cruciali quali la contrapposizione tra etica e ricerca scientifica, la sete di potere e la capacità di sconfiggere la morte dove il fantoccio, ossia la creatura nata per mano dello scienziato Frankenstein, finisce per conoscere solamente gli aspetti brutali della vita rendendolo di conseguenza mostruoso agli occhi di chiunque.
Solo alcuni anni dopo, per la precisazione alla fine degli anni Cinquanta, la casa di produzione britannica Hammer diede vita a una rinascita del genere gotico portando nuovamente sotto la lente di ingrandimento il capolavoro letterario della Shelley per mezzo delle interpretazioni di Peter Cushing e Christopher Lee, garantendo una maggiore differenza sotto diversi punti salienti, tra i quali l’uso dei colori. Queste perle cinematografiche costituiscono solo una piccola parte dei numerosi e ricchi rifacimenti, spesso sfociati addirittura nella parodia o nei crossover; un’eredità, quella lasciata dall’autrice britannica, che ci porta ancora oggi all’interno di un mito della letteratura analizzato da un cineasta che convive con questo mondo.
Frankenstein rappresenta il punto più alto dell’intera carriera di Guillermo del Toro, un cinema prettamente costituito da mostri sebbene il regista messicano riesca a infondere in loro un animo buono e gentile. È un rimescolamento delle carte, dove quel senso di oscurità è rintracciabile nell’avidità dell’uomo, portatore di malefatte e di morte.
L’opera si configura come un summa di tutti i suoi progetti passati a partire da tutti quegli omaggi disseminati lungo l’intera narrazione – da Hellboy a Crimson Peak fino ad arrivare a La forma dell’acqua e alla sua rivisitazione di Pinocchio – coniugati a continui riferimenti nei confronti di quegli autori che già in precedenza avevano osato portare la mostruosa creatura di Shelley sul grande schermo. Guillermo del Toro si impadronisce del manoscritto originale e ne fa un suo racconto personale, imbastito da parabole e sogni che catturano lo spettatore e lo trascinano all’interno di un vorticoso viaggio infernale, un tragitto che condurrà i personaggi verso un punto di non ritorno.

La sceneggiatura di Frankenstein si apre attraverso due punti di vista: il primo, quello dello scienziato Victor Frankenstein, un uomo la cui severa educazione imbastita dal padre lo portano a trovare sollievo solo nel calore della madre. Alla sua triste dipartita niente sembra riaccendere il suo animo oramai logoro, saturo di una vita che fatica ad accoglierlo tra le sue braccia. Un motivo che si può registrare anche nella fotografia di Dan Laustsen, predominata da una palette che occhieggia ai colori più scuri, tetri, come il suo quieto vivere.
A risplendere tra queste tonalità è solo il vivace colore rosso, la cui simbologia può alludere alla sfumatura del sangue (quindi alla morte) ma anche alla stessa passione, quella che sembra divampare nel cuore del protagonista quando incontra la futura sposa di suo fratello minore, Elizabeth, un outsider che fatica a stare al passo con il mondo che la circonda. A partire dalla seconda metà della visione abbiamo una prospettiva dello stesso Mostro di Frankenstein, due racconti che si allacciano per fornire allo spettatore due vissuti diversi, due esperienze di vita che li hanno portati a scontrarsi per arrivare alla fine ad annientarsi.
Attraverso una colonna sonora firmata dal suo stretto collaboratore Alexandre Desplat, il regista fornisce un ritratto grottesco degli uomini a partire dalla sua stessa star Oscar Isaac, un personaggio avvolto dalle spire di un’idea malsana (può un uomo giocare a fare Dio?) che lo trasporterà verso il regno della pazzia. Un destino analogo include la figura di Christoph Waltz mentre a risplendere – e a sbalordire – è l’interpretazione della creatura di Jacob Elordi. Il suo continuo evocare il nome del suo creatore (l’unica parola che conosce) costituiscono dapprima la prova di un attaccamento, un legame che finirà con lo spezzarsi nel momento in cui Frankenstein comprenderà cosa la sua intelligenza lo ha portato a creare.
Il “Victor!” urlato con ferocia e rabbia da parte del mostro nel momento in cui apprende le vere intenzioni del suo creatore – ossia condannarlo di nuovo a morte – costituiscono la base di un rapporto del tutto spezzato, mai veramente sigillato tra i due. Guillermo del Toro plasma la forma del mostro del romanzo per fornirgli un’anima, un senso di compassione e calore che solo alcuni occhi, come quelli dell’incantevole Elizabeth, riescono a riscontrare. Sono tutte fiabe gotiche quelle descritte nel corso degli anni dal cineasta, ognuna portatrice di un messaggio veicolante. Eppure, mai come nella storia di Frankenstein bene e male sembrano intrecciarsi in due personaggi destinati a rincorrersi e a distruggersi per quanto fatto, arrivando a comprendersi solo nelle note finali di un percorso che oramai ha raggiunto una nuova alba.
