Ci sono tanti tipi di genitori: biologici, adottivi, circostanziali, di fatto, talvolta assenti. Nessuno di loro potrà mai essere un mentore perfetto, e Il Maestro ci tiene a ricordarcelo. Al di là degli errori che inevitabilmente si commettono in questo ruolo, ciò che resta, alla fine, è il bene che muove le azioni.
Non è perfetto il padre di Felice, così come non è perfetto il maestro Raul Gatti. Ma possiamo essere certi, anche grazie all’indizio lasciato nei titoli di testa, che il piccolo Felice dentro Andrea Di Stefano abbia riconosciuto in entrambi figure fondamentali per la sua crescita.
Il Maestro, di cosa parla?
Presentato Fuori Concorso all'82esima Mostra del Cinema di Venezia, Il Maestro è ambientato in un'estate di fine anni Ottanta. Felice ha tredici anni e un futuro già tracciato, almeno apparentemente, ovvero quello che suo padre sogna per lui sul campo da tennis. Dopo anni di allenamenti e disciplina ferrea, è arrivato il momento di misurarsi con i tornei nazionali. Per prepararlo, il padre lo affida a Raul Gatti, un sedicente ex campione che vanta un ottavo di finale al Foro Italico.

Inizia così un viaggio lungo la costa italiana, fatto di partite, bugie e sopratutto sconfitte. Un percorso che per Felice diventa l’occasione di respirare per la prima volta il sapore della libertà, e per Raul la possibilità di un riscatto mai arrivato. Tra i due nasce un legame intenso, non sappiamo quanto duraturo, ma sicuramente indelebile.
La sensibilità di chi nella vita ha perso
Il film recupera alcuni elementi tipici delle tradizionali commedie italiane agrodolci, ma anche la malinconia che da sempre accompagna questo genere. Allo stesso tempo, Il Maestro è un film che contiene molte anime: da un lato un road movie, dall’altro un buddy movie, e insieme anche un tenerissimo coming-of-age. Un mix perfettamente equilibrato che dà vita ad un ritmo incalzante, fatto di sorrisi e sorrisi amari, con il cuore sempre protagonista. Qualche passaggio di sceneggiatura è un po' troppo prevedibile, ma va contestualizzato e non ci sentiamo di condannarlo.
La macchina da presa segue i personaggi con dolcezza, ma senza mai perdere di vista il realismo dei perdenti, che avvicina lo spettatore a Felice e Raul. È una messinscena che non cerca la grandezza, ma lavora di sottrazione, e proprio grazie a questo riesce a dare intensità ai momenti più intimi del racconto. Da sottolineare anche l’importanza della colonna sonora, che accompagna il viaggio e ne segue le trasformazioni: dalla musica dance d’apertura in stile Challengers fino alla delicatezza che accarezza i momenti più profondi dei protagonisti.

L’interpretazione di Pierfrancesco Favino è totale e riesce a restituire tutte le contraddizioni di uno dei mestieri più difficili del mondo. Accanto a lui, Tiziano Menichelli è una vera rivelazione. Insieme formano un duo affiatato, capace di reggere senza esitazioni ogni emozione che il film vuole offrire. Dopo L’ultima notte di Amore, Andrea Di Stefano si riconferma come un regista versatile, in grado di muoversi tra generi differenti e di raccontare personaggi fragili con sensibilità.