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Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, La recensione

di Sara Pavia

Pubblicato il 2022-10-09

Uscita il 21 settembre, la miniserie Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer narra la vicenda di uno dei serial killer più temuti d’America

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Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer è una delle serie tv più discusse del momento. Uscita lo scorso 21 Settembre su Netflix, la serie ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, creatori anche di Glee e American Horror Story, ha immediatamente raggiunto i primi posti nella classifica delle serie più viste in Italia, e non solo.

La serie, che da qui in poi chiameremo per comodità solamente Dahmer, è una miniserie di 10 episodi che narra la storia di uno dei più famosi e controversi serial killer della storia americana e che vede come protagonista Evan Peters nei panni di Jeffrey Dahmer, attore diventato celebre grazie ai diversi ruoli in American Horror Story. Al suo fianco troviamo Richard Jenkins nei panni del padre, Molly Ringwald che interpreta la madre di Jeffrey, Michael Learned, la nonna, e Niecy Nash che prende la parte della vicina di casa.

A dirigere le puntate troviamo diversi nomi, conosciuti o meno, tra i quali Carl Franklin, Clement Virgo, Jennifer Lynch (figlia di David Lynch), Paris Barclay e Gregg Araki, i quali riescono a dare ognuno il proprio tocco personale al prodotto.

Evan Peters in una scena della miniserie Dahmer
Evan Peters in una scena della serie su Jeffrey
Dahmer

Please, don’t go

Per favore, non andare” è la frase che riesce a racchiudere le infinite sfaccettature del dramma psicologico che Jeffrey Dahmer vive durante la sua tormentata esistenza, ma non solo. La stessa frase è anche il titolo della canzone del 1979 del gruppo americano KC and The Sunshine Band, brano dai toni romantici tipico dei balli di fine anno delle high school d’oltreoceano, il quale risuona spesso durante questi 10 episodi, soprattutto in momenti drammatici che segnano la psiche del protagonista.

Gli episodi si strutturano su un arco temporale che va dagli anni ’60, in cui Dahmer è solo un bambino, fino agli anni ’90, intrecciando eventi attraverso i flashback forniti proprio dal protagonista mentre parla con la polizia, dopo essere stato preso, evento con il quale si apre la serie. Ripercorriamo anacronisticamente la vita di Jeffrey, bambino introspettivo cresciuto in una famiglia disfunzionale, una madre alle prese con problemi di depressione e un padre essenzialmente assente, con il quale elemosina attenzioni e amore.

Jeffrey cresce così sviluppando un’attrazione particolare per la dissezione di corpi di animali, unico interesse che sembra donargli soddisfazione e avvicinamento al padre, che lo ha stimolato e spronato in questa sua passione. Con l’adolescenza arriva anche il divorzio dei genitori, che scatenerà una reazione eccessiva al senso di abbandono che lo ha da sempre accompagnato, portandolo ad essere il famoso serial killer che conosciamo oggi.

Con queste modalità di narrazione, attraverso salti temporali ed emozionali, gli scrittori riescono a tenerci incollati al televisore, accompagnandoci in un viaggio attraverso sofferenza, solitudine e disperazione, indagando le motivazioni che possono aver portato Jeffrey a essere quello che è. Le puntate sono una diversa dall’altra ed ognuna racconta di Dahmer sotto diversi punti di vista, vittima dopo vittima, mantenendo le atmosfere cupe e immobili tipiche di questo genere.

Il male arriva senza bussare

Parlando dell’immaginario creato in Dahmer, si susseguono atmosfere dark, luci soffuse e colori scuri, che ci invadono donandoci un senso di claustrofobia, tanto che riusciamo a tirare un respiro di sollievo solo quando compaiono i titoli di coda. Sono caratterizzanti i numerosi primi piani lunghi, lenti, magistralmente costruiti per farci sentire intrappolati, insieme a lui e alle sue vittime, nelle diverse stanze dell’orrore. Con pochi e brevi dialoghi, percepiamo la solitudine e l’abbandono che segnano per sempre la personalità del protagonista.

Dahmer è una serie che, a differenza di altre, non si concentra solamente sugli eventi, su quel macabro tipico del true crime che attira un numero sempre maggiore di persone, ma ci permette di allargare la nostra percezione della vicenda, focalizzandosi sulle figure vicine al protagonista, come ad esempio il padre e la nonna, con la quale ha vissuto per qualche anno, ma anche la vicina di casa, che giocherà un ruolo importante nella storia.

Solitamente, quando si parla di tragedie, il pubblico è interessato ai fatti e poco spesso succede che si venga dato spazio alle persone toccate, anche secondariamente, dalla vicenda. In questo caso, invece, possiamo ad esempio assistere alle reazioni dei genitori e all’estremo bisogno che hanno di darsi una spiegazione, alla paura di affrontare i propri demoni e i sensi di colpa che li pervadono, sensazioni che non riescono a scaricare su nessun altro se non loro stessi. Ci si domanda se esistono spiegazioni logiche, ragioni umane al disumano, ma forse l’unica riposta possibile, nonostante sia difficilmente accettabile, è che il male arriva senza invito e senza bussare.

La critica sociale in Dahmer

Possiamo tranquillamente affermare che Dahmer non è solo una serie biografica, ma è, soprattutto, un prodotto dalla forte critica sociale, e lo fa principalmente attraverso uno dei personaggi, Glenda Cleveland, la vicina di casa del killer, magistralmente interpretata da Niecy Nash.

Ambientato in un’epoca passata nella quale il “diverso” veniva emarginato, discriminato e abbandonato dalle autorità, gli sceneggiatori si sono focalizzati molto sulle mancanze da parte della polizia nei confronti di chi aveva già denunciato delle stranezze da parte di Dahmer, in particolare nei confronti della sua vicina, che aveva ripetutamente chiamato e segnalato i rumori spaventosi e la puzza disgustosa che provenivano dal suo appartamento. La serie interroga sul come sia stato possibile, per così tanti anni, che nessuno si sia accorto di nulla, nonostante i precedenti che avevano già fatto incarcerare Jeffrey per molestie.

Un’altro elemento che emerge, e che tuttora sta creando controversie, è la spettacolarizzazione del dolore, che la serie “condanna” mostrandoci l’assurdità di tutto ciò che è successo dopo l’incarcerazione di Dahmer, dalle lettere dei fan nelle quali lo elogiavano, donandogli anche soldi, ai fumetti basati sulla sua storia fino ad arrivare pure ai costumi di Halloween, in quello che è un vero e proprio circo mediatico.

Questo è proprio quello di cui è stata accusata la serie, ovvero di rendere umano un mostro che di umano, in realtà, ha ben poco. Il protagonista stesso, Evan Peters, in un’intervista dichiara come quello di Jeffrey sia stato il ruolo più spaventoso e difficile della sua carriera. La sua interpretazione è impeccabile: la bravura nel mostrare l’apatia nei confronti di tutto ciò che lo circonda, la mancanza di ogni tipo di emozione, il tono di voce costantemente basso e freddo, tutti elementi che hanno reso il personaggio raggelante. La bravura dell’attore però sta anche nella delicatezza con cui ha evidenziato queste caratteristiche, una delicatezza che ritroviamo nei dettagli del volto e dei movimenti.

Nonostante la difficoltà di riuscire ad empatizzare con il personaggio, ci ritroviamo inconsciamente a sperare in un suo cambiamento, in una redenzione o, per lo meno, in una presa di coscienza. Ci scopriamo a “tifare” per un suo cambio di rotta, a sperare che prenda le decisioni giuste e che torni sulla retta via perché anche lui, in fondo, è un essere umano i cui demoni hanno preso il sopravvento, intrappolandolo in un vortice in cui sparisce la persona e rimane solo il mostro.

9

Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer è una miniserie di 10 episodi che riesce a cogliere aspetti intimi e psicologici di uno dei più celebri serial killer della storia americana, ma senza renderlo vittima. L'immaginario claustrofobico di cui è pervasa la serie funziona a meraviglia e concede una sospiro di sollievo allo spettatore solamente durante i titoli di coda.

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