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Black Mirror 6, Recensione – Un (confuso) pastiche di generi

di Emidio Sciamanna

Pubblicato il 2023-06-23

Black Mirror ha finalmente compiuto il suo atteso ritorno su Netflix, inaugurando la sesta stagione con ben cinque episodi.

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Lasciatosi alle spalle l’interessante progetto del film interattivo Bandersnatch e dopo più di 4 anni dall’ultima stagione, lo scorso 15 giugno 2023 Black Mirror ha finalmente compiuto il suo atteso ritorno su Netflix, inaugurando la sesta stagione con ben cinque episodi.

Come ormai tutti sapranno, la popolare serie di Charlie Brooker è composta da puntate auto-conclusive che, immerse in un mondo distopico ispirato dalla realtà contemporanea, affronta le conseguenze di un’incontrollabile progresso tecnologico, spesso rappresentato attraverso la follia collettiva di una società degenerata e instabile.

Negli ultimi anni, complice una quinta stagione non particolarmente apprezzata e, soprattutto, una graduale mancanza di innovazione, Black Mirror ha inevitabilmente perso parte del suo crudo e inquietante appeal iniziale. La domanda sorge spontanea: questi nuovi episodi sono riusciti a risollevare una serie ormai lontana dai fasti del passato?

Attenzione: seguiranno SPOILER sulla sesta stagione di Black Mirror.

Un inizio promettente

Sin dalle prime battute, la serie mostra ancora una volta quell’affascinante e instabile connessione tra realtà e finzione, tra incubo e follia. A partire dall’episodio inaugurale, vengono in gran parte approfondite le tematiche e le modalità attraverso le quali Charlie Brooker critica la società contemporanea.

La protagonista del primo episodio, intitolato Joan è terribile, è Joan Tait (Annie Murphy), una donna ordinaria con una vita comune. Al termine di una difficile giornata di lavoro, scopre con orrore che la sua vita è rappresentata, in modo estremamente dettagliato, in una nuova serie TV presente sulla piattaforma streaming “Streamberry” – evidente parodia della stessa Netflix –.

Che si tratti di piccole banalità quotidiane o di veri e propri segreti inconfessabili poco importa: ogni aspetto della vita di Joan è sotto gli occhi di tutti, circondato da sguardi opprimenti e inquisitori.

La vita di una persona si trasforma in uno show televisivo, un banale prodotto di fiction che traspone sullo schermo, romanzandola, la realtà di tutti i giorni, in modo non troppo differente dall’ossessivo universo-reality di The Truman Show.

La causa di tutto è un’innovativa I.A., in grado, attraverso le informazioni estrapolate dagli smartphones, di sviluppare prodotti potenzialmente illimitati in brevissimo tempo, rilasciandoli poi sulla piattaforma streaming per intrattenere un pubblico sempre affamato di nuovi contenuti.

Alcuni momenti marcatamente trash delle protagoniste Annie Murphy e Salma Hayek accompagnano una storia che sfonda nella metanarrazione e nel “mise en abyme”, replicando senza sosta le sequenze di vita reale all’interno della serie TV, elemento cardine di un’eterna riproduzione virtuale.

Black Mirror 6, il thriller prende il sopravvento

La piattaforma “Streamberry” è il filo rosso che collega i primi due episodi della nuova stagione. Anche nella seconda puntata, Loch Henry, la parodia di Netflix è il motore che dà il via alla narrazione, seppur con un pretesto tecnologico più debole e superficiale rispetto a Joan è terribile.

Stavolta ci troviamo in Scozia: i protagonisti sono Davis e Pia, una coppia di giovani registi indipendenti che tornano nella cittadina natale del primo – Loch Henry, appunto – per realizzare un particolare documentario d’inchiesta. Il racconto si fonde con la realtà quando si scopre che una serie di efferati omicidi, risalenti agli anni novanta, hanno avuto luogo proprio nella sperduta località scozzese, da quel momento sempre più abbandonata dal turismo.

Il contesto thriller/horror è lo sfondo di una struttura narrativa estremamente coinvolgente e ricca di colpi di scena, in cui la tecnologia appare quasi esclusivamente sotto forma di videocamere obsolete e di vecchie videocassette; la componente distopica “alla Black Mirror” è tuttavia presente ed è decisamente attuale, simboleggiata dalla volontà di sacrificare ogni aspetto della propria vita privata per poter trovare il modo di emergere, di fare carriera, all’interno di un mondo cannibalizzato dall’irrefrenabile necessità di provare una finta e deplorevole compassione verso il prossimo.

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Aaron Paul e l’impossibilità di agire

La puntata centrale di Black Mirror 6 è intitolata Beyond the Sea ed è, a conti fatti, quella più in linea con lo stile delle precedenti stagioni. In una realtà alternativa degli anni sessanta, due astronauti Cliff (Aaron Paul) e David (Josh Hartnett) sono impegnati in una lunga missione spaziale che li terrà lontani da casa per anni.

Per rendere meno complessa la loro permanenza, sono stati ideati due androidi replicanti – con le stesse fattezze dei protagonisti – in cui i due uomini possono immettere la loro coscienza per un periodo di tempo limitato.

Quando il replicante di David viene tragicamente “ucciso” insieme alla sua famiglia, Cliff si propone di fargli utilizzare sporadicamente il suo: le vite dei due uomini si sovrappongono quindi sullo stesso androide, portando a risvolti inevitabilmente funesti.

La bravura di Aaron Paul emerge in particolar modo nella capacità di dar vita a due personaggi con caratteri e modi di fare completamente opposti, intrappolati loro malgrado in un corpo sintetico, incapace di restituire quel barlume di umanità che la moglie di Cliff (interpretata da Kate Mara) ricerca spasmodicamente.

La soffocante atmosfera della nave spaziale è resa attraverso il lento incedere della narrazione, scandita dalla statica monotonia dei due astronauti e dalla ciclica ripetitività delle loro azioni quotidiane; come se lo spettatore fosse costantemente in assenza di ossigeno, gli unici momenti in cui è possibile respirare sono quelli “terrestri”, caratterizzati da libertà e spensieratezza, da leggerezza e desiderio.

Tutto l’episodio è incentrato sull’impossibilità di agire: i due uomini sono bloccati dal peso di un voyeurismo ineluttabile. La loro volontà non può essere soddisfatta in alcun modo, e la scena finale ne rappresenta il climax assoluto.

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Fuori dai binari

Se fino a questo punto Black Mirror lasciava intendere alcuni evidenti segnali di ripresa rispetto agli anni passati, ecco che con gli ultimi due episodi le speranze riposte vengono puntualmente smentite.

L’episodio Mazey Dayprobabilmente uno dei punti più bassi mai toccati dalla serie – si fa portavoce di un’approssimativa critica al mondo dei paparazzi, ormai ben lontana dall’essere una tematica attuale; o meglio, lo sarebbe stata, se non fosse che, invece di approfondire il discorso sulla privacy e sulla diffusione di immagini sensibili che circolano e si moltiplicano in modo incontrollabile sul web, si sono limitati a raccontare gli stereotipi più banali della professione, pienamente descritti da personaggi scialbi e privi di una vera e propria evoluzione narrativa.

Il quinto e ultimo episodio, Demone 79, risulta invece molto più solido e godibile del precedente. Caratterizzato dall’irriverente dualismo della commedia horror, la puntata ritrae la vita di una bistrattata commessa di origine indiana nel Regno Unito del 1979, periodo particolarmente tumultuoso per gli immigrati a causa della pressione esercitata dal partito di estrema destra del “Fronte Nazionale”.

L’esistenza della ragazza viene sconvolta nel momento in cui risveglia un demone nascosto all’interno di un talismano: superata l’iniziale incredulità, la protagonista viene a sapere che un’imminente apocalisse nucleare può essere fermata soltanto compiendo tre omicidi nei successivi tre giorni.

L’evoluzione della giovane, contrariamente a quanto accade in Mazey Day, è ben delineata e lascia intendere, sin dalle prime battute, una forte contraddizione intrinseca. I bizzarri dialoghi con il demone “buono” e inesperto – una citazione al Ryuk di Death Note sembra essere doverosa – accompagnano l’inquietante dilemma morale: lasciar collassare una società che ti ha sempre disprezzato oppure macchiarsi di omicidio per soddisfare un ipotetico bene superiore?

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Senza un filo conduttore

La sesta stagione di Black Mirror è indubbiamente scissa in due parti ben distinte. Da un lato i primi tre episodi ripropongono, con qualche variazione, le affascinanti tematiche che hanno da sempre contraddistinto l’opera di Charlie Brooker; dall’altro, al contrario, la strada intrapresa negli ultimi due episodi sembra non avere alcun punto di contatto con l’elemento chiave della serie: i risvolti di una distopia tecnologica sono sostituiti da improbabili e (soprattutto) inspiegabili sottotrame soprannaturali.

La comparsa del licantropo in Mazey Day è un “coup de théâtre” totalmente illogico, una soluzione fiacca, che non aggiunge nulla ad una vicenda potenzialmente molto interessante; per quanto divertente, anche la presenza del “diavoletto” Gaap in Demone 79 risulta decisamente fuori contesto per ciò che la serie ha sempre voluto raccontare.

Gli ultimi due episodi, pur con risultati differenti, non raggiungono il loro obiettivo. Questo non è Black Mirror, non si rispecchia in nessun modo nel tetro oblio di uno schermo nero, non pone alcun dubbio sull’utilizzo di una tecnologia sempre più invasiva e dominante. Si è persa una coerenza narrativa, l’unica in grado di dare continuità a una serie un tempo tremendamente cinica e spietata. Si è perso il filo conduttore, senza il quale l’opera perde inevitabilmente la sua identità.

7
La sesta stagione di Black Mirror è un altalenante viaggio nei mondi distopici affrontati nelle precedenti stagioni. Se i primi tre episodi mantengono parzialmente le affascinanti idee che, da sempre, hanno contraddistinto la serie, negli ultimi due episodi il filo conduttore rappresentato dalla tecnologia svanisce nel nulla, lasciandosi alle spalle una narrazione in piena crisi esistenziale. Cinque puntate estremamente godibili ma che, nel complesso, non riescono a risollevare un'opera che sembra avere ormai ben poco da raccontare.

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