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American Gods, terza stagione: recensione dei primi 3 episodi.

di Nicola Artusi

Pubblicato il 2021-02-04

Oh, American Gods! Ci avevi così tanto fatto ben sperare nella prima stagione! Una storia presa da una romanzo innovativo, che mescola la tradizione statunitense del viaggio on the road con la complessità dell’integrazione etnica in un Paese di migranti. Una regia illuminata, una fotografia avvicente e pittorica, l’uso del neon al posto e al …

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Oh, American Gods! Ci avevi così tanto fatto ben sperare nella prima stagione! Una storia presa da una romanzo innovativo, che mescola la tradizione statunitense del viaggio on the road con la complessità dell’integrazione etnica in un Paese di migranti. Una regia illuminata, una fotografia avvicente e pittorica, l’uso del neon al posto e al momento giusto, e, non da ultimo, un intrigante intreccio imbastito da pluripotenti divinità.

Insomma, una summa enciclopedica del pantheon indoeuropeo in modalità battaglia navale.

Poi arrivò la seconda stagione.

E tutto fu perduto. Alla sostanza si preferì la forma, al tronco si preferirono i rami, e American Gods divenne una serie basata sulle divagazioni e scene al rallenty, con sottotrame senza dignità a occupare episodi interi.

Cosa ci ha lasciato la seconda stagione?

American Gods ci aveva lasciato in balia di un Odino perso e disorganizzato, uno Shadow Moon che aveva scoperto le sue origini semidivine ed era, finalmente, riuscito ad affrancarsi da Mr. Wednesday. La morte di Mad Sweeney ci aveva fatto sussultare (o esultare, ndr) e si era completamente persa di vista la fatidica guerra contro le nuove divinità, paventata nei primi episodi.

Da qui in poi, SPOILER ALERT!

E ora?

Beh, la terza stagione di American Gods inizia benissimo, con Laura che FINALMENTE muore. Un ramo secco che doveva essere amputato molto prima ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di fare. Ma non sperateci troppo: la rivedremo nel terzo episodio, sempre più morta, ad affrontare i drammi del proprio passato.

American gods, Laura
Laura e la gioia di essere ancora viva nella morte

Che gioia.

Il focus della stagione sembra tornare su Shadow Moon, figlio “illegittimo” e semi-mortale di Odino che parrebbe averlo nuovamente circuìto per i suoi scopi. Il nuovo taglio di capelli, la nuova barba e la nuova location fanno ben sperare in una evoluzione più suggestiva del personaggio, qualcosa di diverso dal normale meccanismo “Odino dice, Shadow fa”. Un Odino, peraltro, sempre meno convincente e sempre meno concreto, che poco porta al proprio mulino nel suo peregrinare da città a città.

Eppure, la sensazione dopo i primi due episodi è stata quella di aver ritrovato l’American Gods della prima stagione: intrigante, interessante, innovativa. Complice un recasting di Mr. World, il globalizzante capo delle nuove divinità, reinterpretato in una versione schizo-killer da Dominique Jackson (Pose); complice un po’ di azione nella scacchiera degli dei; complice anche la sottotrama mistery della seconda puntata.

La nuova versione di Mr/Mrs World

Alla terza puntata, tutto torna alla normale routine: uno stanco Wotan con i denti finti insegue divinità cercando di convincerle a perorare la sua causa; una Laura che non ha più nulla da dare ruba minuti preziosi di streaming; nulla si muove nella guerra di trincea tra le paure primordiali e gli agi moderni.

American Gods
Odino e Shadow

L’unica, vera, novità è Shadow Moon: finalmente un personaggio, con delle motivazioni, con una identità, o meglio con uno, due, tre, conflitti di identità. Marito ma uomo single, figlio e orfano, umano e divino, libero e perseguitato, Shadow Moon è il focus centrale e interessante di questa stagione.

Un altro interessante sviluppo è la scomparsa da Lakeside, idilliaca cittadina (che mi richiama tantissimo alla mente Stars Hollow, Gilmore Girls, ndr) in cui Shadow si è rifugiato, di una ragazza. I sospetti iniziali ricadono su di lui, facendo presagire, per il futuro della stagione, un coinvolgimento in una trama più grande.

Ditemi se non ricorda Stars Hollow?!

Per ora, gli altri personaggi “secondari” sono lasciati in disparte, ad assistere agli eventi. L’unica eccezione è rappresentata da Bilquis, la Regina di Saba, la potente incantatrice mangiauomini. La vediamo alle prese con la fragile situazione del suo essere: una potente dea ridotta a cortigiana, accompagnatrice, neutrale eppure soggiogata al potere dei nuovi dei.

La vediamo sopratutto alle prese con delle difficoltà nella gestione dei suoi poteri, ancora capace di fagocitare i suoi amanti, ma indebolita nel farlo. La sua stessa posizione di neutralità nella guerra tra dei la mette in pericolo: alla fine del terzo episodio, la sentiamo chiamare in suo soccorso Shadow Moon. Al suo arrivo, Shadow troverà Techno Boy con le mani sporche di sangue, e di Bilquis nessuna traccia.

Bilquis

Non solo di Bilquis non c’è traccia, ma anche della famosa “guerra tra dei”, di cui tanto si parla, ma con poca sostanza. Non ci resta che sperare in qualche cataclisma inviato da Odino verso la fine della stagione, quantomeno per smuovere un po’ gli equilibri.

American Gods e Black Lives Matter

Non so se sia solo un’associazione ex post, ma in questa stagione il peso del movimento BLM si fa sentire. Nel bene e nel male, intendiamoci; da un lato, il tema del razzismo negli States è affrontato con coraggio e con sincerità nella scena in cui Shadow viene, per primo, identificato come potenziale sospetto della scomparsa di Alison a Lakeside; dall’altro, il cambio morfologico di Mr. World da uomo bianco a donna nera è giustificato proprio per quello che è: un’operazione di marketing che segua il trend del momento.

Al quartier generale di Mrs World

Sempre nel terzo episodio, si rincorrono dei sogni premonitori nella mente di Shadow, che coinvolgono Bilquis, delle (presunte) altre divinità africane, e donne afroamericane famose: Rosa Parks, Ida B. Wells, Harriet Tubman, Nina Simon e Angela Davis. Shadow, insomma, sembra ripercorrere le sue origini ancestrali, il suo lato black, come a voler dire che ciò che lo rende speciale non è obbligatoriamente, o solamente, l’essere figlio di Odino.

Shadow nel freddo di Lakeside

Stilisticamente, American Gods non delude: la regia e la fotografia si confermano accattivanti e piacevoli, i dettagli sono minuziosamente curati, e i set non badano a spese per risultare credibili. Speriamo solo che questa terza stagione non si fermi qui ma riesca a far procedere la trama principale, senza diluire ulteriormente questo cuba libre con altra cola. Una cola buona, per carità, ma pur sempre cola.

Ti interessano recensioni su altre serie del momento? Dai un occhio alle nostre opinioni su WandaVision e Fate.

8

Finalmente un ritorno all'origine. La terza stagione di American Gods prende da subito un'ottima piega, con la sensazione di aver tolto un po' di peso e di fronzoli a una serie altrimenti ben fatta. Piacevola l'introduzione degli elementi mistery, una novità ben azzeccata. L'evoluzione dei personaggi di Shadow e Bilquis è interessante, obbligati in nuove sfide e situazioni; Odino, al contrario, rimane identico a sé stesso, stancando sul lungo periodo. Molti i riferimenti al movimento BLM, di cui presto scopriremo se American Gods si erge a portabandiera.

  • Finalmente un po' di movimento
  • Il tema mistery
  • Shadow diventa potente
  • Si sente il rischio di ricadere nella lentezza della seconda stagione
  • Le dinamiche di Odino cominciano ad essere stancanti

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